GIORNO 1
Tornando alla mia visita, arrivato all’aereoporto di Mandalay, uscii nel parcheggio dove conducenti di decrepiti taxi e di minibus offrivano i loro servizi senza l’insistenza così presente in altre città del sud est asiatico. Il tragitto per la città fu piuttosto lungo e caratterizzato subito da un lungo tratto di un’autostrada di nuova costruzione usata da pochissimi veicoli, circondata da campagna, colline e fattorie. E poi dal disastro totale della periferia della città, dove le strade sono piene di insidie, i marciapiedi disgiunti, e dove la gente del posto va alla la merce inricerca di merce in piccoli negozi che vendono qualsiasi cosa immaginabile. Mentre ci avvicinavamo alla città, la strada si ridussero e vennero occupate da machine, biciclette, risciò (che qui si chiamano Sai Kaa), autocarri – alcuni che letteralmente cadevao a pezzi – che emettevano malsane esalazioni scure, persone, cani, donne che trasportavano cesti di vimini pieni di cibo in testa, e uomini vestiti in longyis – il tradizionale lungo sarong birmano indossatoda uomini e donne – in una cacofonia di suoni che invadevano i timpani.
Dopo essermi sistemato in un hotel del centro, iniziai la mia visita con una passeggiata dietro l’angolo della strada, dove, nei pressi di un venditore di frullati e di alcuni uomini seduti in una sedia di plastica che passavano il tempo discutendo di politica, incontrai chi mi fece da autista di risciò e da guida per tutto il viaggio: Jue, un tipo calmo e sorridente dalla pelle scura, un uomo di mezza età il cui corpo sottile mostrava il disagio di anni di pedalate sul suo tre ruote di fabbricazione cinese. L’inglese Jue era sufficente per fare semplici conversazione, così concordai la tariffa e saltai in sella al suo veicolo.
Jue in primo luogo si preoccupò per la il mio stomaco e mi portò a mangiare in un ristorante dall’aspetto moderno in cui mi servirono curry di pesce, gamberi marinati, piccoli contorni di tutti i tipi di verdure, il tutto accompagnato da salse piccanti e non piccante. Mangiai fino a scoppiare! La cucina birmana è influenzata da paesi limitrofi come Thailandia, Cina, India e Laos, una vasta scelta di piatti caldi e freddi da gustare conditi a vostro pipacere con salsa di peperoncino, salsa di gamberetti, salsa di soia o succo di lime. I mercati locali sono il luogo perfetto per vedere (e gustare) I prodotti birmani come okra, fagioli lunghi e fagiolini verdi, e la specialità Mohinga, una zuppa di pesce con spaghetti di riso freschi che i locali amano mangiare a colazione. Il Mondi, uno dei piatti forti di Mandalay, consiste in gustosi noodles di riso con pollo al curry; gli Shan noodles sono un altro piatto assolutamente da provare.
Saltai di nuovo sul risciò di Jue per partire verso un’altra destinazione. Le strade a scacchiera di Mandalay sono occupate da un miscuglio caleidoscopico di migliaia di risciò (la città ne ha 13.000 registrati!), e Jue affrontava gli incroci (tutti privi di semaforo) confrontandosi con ciclomotori giapponesi, jeep assettati e auto moderne con un’alzata della mano destra per pretendere la precedenza. Facemmo tappa in un laboratorio di foglie d’oro dove potemmo osservare abili artigiani cittadini al lavoro: il metallo prezioso viene martellato a mano migliaia di volte come ai vecchi tempi, per produrre luccicanti fogli dorati sottili che vengono acquistati da gente del posto e strofinati sulle sculture del Buddha e nei templi.
In seguito Jue pedalò lungo il fossato della città da dove si intravedere il Mandalay Palace circondato dalle muraper poi fermarsi in una sala da tè all’aperto, dove gustai un tè indiano speziato e fumante, e dove fumai la mia prima sigaretta birmana fatta a mano: un cheroot. Aromatiche e speziate, queste buffe e verdi sigarette erano molto popolari tra gli inglesi l’epoca dell’Impero Britannico. Jue mi disse che una donna del posto può produrre fino a 1500 cheerots al giorno.
Venne l’ora di andare a Mandalay Hill. Lungo la strada abbiamo facemmo una sosta al Kuthodaw Paya, un gruppo di templi sorprendente ed unico che dispone di una grande pagoda dorata. La sua caratteristica principale sono le intriganti 729 lastre di marmo incise con i 15 libri completi del Tripitaka, le scritture sacre del Buddismo che tutti i monaci devono imparare a memoria.
Ai piedi della Mandalay Hill affrontai un dilemma: scalare i 1729 gradini fino alla cima, o prendere la via più facile. Il tramonto si avvicinava inesorabile e il tempo non mi premise di scegliere la prima opzione; pagai perciò la corsa ad un moto-taxi, il quale viaggiò ad una velocità sorprendente lungo la strada a tornanti, evitando di pochi millimetri i locali che scendevano a piedi; mi lasciò all’entrata di una scala mobile. Arrivai in cima appena in tempo per godermi la vista della città sottostante, oltre ad un coloratissimo tramonto che spargeva la sua varietà di colori sulla città e sulla campagna circostante.
E’ in cima alla collina, a 240 metri sul livello del mare, dove si dice che il Buddha fece una profezia: nell’anno 2400 dell’ Era Buddista, una grande città sarebbe stata fondata ai piedi della collina, una profezia che si avverò quando Mandalay fu fondata da Re Mindon nel 1857. Una volta che il tramonto terminato, iniziai la discesa della collina a piedi scalzi, che durò circa 30 minuti. Durante la discesa, fui premiato dapprima da un enorme Buddha in piedi, la sua mano tesa puntata nella direzione del palazzo reale, poi dalla vista di molti templi, santuari spirituali, posti dove fermarsi a bere qualcosa e a riposarsi, e bancarelle di souvenir, che vista l’ora stavano chiudendo i battenti.
Era buio pesto quando arrivai giù, i piedi erano gonfi per lo sforzo; Jue era li che mi attendeva pazientemente all’ingresso, sorridente, pronto per la pedalata di 4 km per arrivare al mio albergo. Gli pagai il servizio e una mancia, e ci salutammo. Cenai in un baracchino da marciapiede con curry indiano di montone e chapatti prima di ritirarmi in branda, completamente distrutto ma pieno di immagini e di ricordi della lunga ed eccitante giornata.