Mi sveglio di soprassalto, fuori dalla finestra è ancora buio. Guardo il telefono: sono le 5! Mi hanno svegliato rumorosissimi altoparlanti che trasmettono ripetitive litanie che non tendono a cessare. Fa freddo; mi metto uno spesso maglione ed esco a controllare. Pensavo fosse la piccola moschea che avevo visto nelle vicinanze il giorno prima, invece si tratta dei vecchi altoparlanti del tempio buddista in cima al colle, sul quale spicca importante la sua pagoda dorata. Il supplizio finisce alle 6, e visto che i raggi del sole stanno già illuminando il paese, esco a fare colazione in attesa di confermare col mio compagno di viaggio il trek al monastero sulle montagne.
I mercanti stanno aprendo le porte a fisarmonica dei loro negozi, espongono la merce e si preparano per la lunga giornata lavorativa. Nei negozietti di generi vari, coloratissime bustine monodose di shampoo, balsamo per capelli e detersivi vari, nonché caramelline e dolciumi appesi a corde che attraversano le ‘vetrine’, fanno da specchietto per le allodole ad una serie di articoli molto ricercati qui quali saponette, creme sbiancanti, accendini e fiammiferi, profumi e un infinità di piccole scatolette e tubini dal dubbio contenuto. Tutta la mercanzia è caratterizzata da una patina di polvere che ne vela le confezioni, facendole sembrare vecchie ed inappetibili. Un mercante cinese in braghe del pigiama, t-shirt ed un giaccone gabardin gessato mi sorride, mentre al suo lato un carismatico musulmano dalla barba lunga e bianca sta allestendo il suo banchetto. È un riparatore di ombrelli, e sul tavolo ha i ferri del mestiere: pacchi di raggi di varie lunghezze e dimensioni, ingranaggi centrali, viti vitine e bulloncini, scheletri di ombrelli con solo manico e asta centrale, barattoli di grasso ed olio oltre ad una serie di fondamentali cacciavitini di precisione. Ci sorride mentre si rimbocca la giacca a vento, riparandosi da una folata di vento freddo, poi si siede paziente e si mette le mani in tasca, osservando il via vai della strada che si fa sempre più intenso.
Alla sala da té, incontro le due guide di ieri, le quali mi informano che la litania mattutina fa parte della preparazione ad un festival annuale chiamato Tazaungmon, o festival delle luci. Questo culminerà l’indomani nella notte della luna piena e marcherà l’inizio di un mese speciale, il Kahtein, durante il quale i fedeli offrono tuniche nuove alla comunità dei monaci. La litania mattutina continuerà tutti i giorni fino alla fine del festival. I miei amici non si limitano a spiegarmi del festival e, al vedermi attento, mentre bevo un caffé e mangio una frittella mi bombardano di nuovi vocaboli in lingua Palaung, che pretendono che io ripeta nell’immediatezza nonostante io cerca di farmi i cavoli miei, ancora assonnato dalla levataccia. Quando gli dico della nostra intenzione di farci una camminata per le montagne alla ricerca di un monastero in altura, si propongono come guide. Era nostra intenzione contrattarne uno dei due, ma visto la quantità di parole che rigurgitano al minuto, decido di privarmi della loro compagnia e declino educatamente con delle scuse, al ché loro si congedano ed escono alla ricerca di turisti. Ricerca vana, visto che alla guesthouse dove alloggiamo, l’unica di Namhsan, siamo solo noi, una ragazza coreana ed un ragazzo francese. È dura la vita delle guide quassù.
Ci riuniamo alla sala da té e ci incamminiamo lungo la strada centrale in direzione sud, attraversando la zona della lavorazione del té: dentro ogni casa, pittoreschi personaggi, alcuni dall’aspetto centenario, sono impegnati a separare il le foglie di té buone da quelle scadenti. Vecchietti che sfoggiano coloratissimi costumi tribali passeggiano sorreggendosi ad intarsiati bastoni. Sulla strada, un mare di foglie di té è posto ad essicare su stuoie di bambù intrecciato che poggiano sui marciapiedi e su parte della strada. Queste foglie hanno un odore pungente che impregna l’aria, rendendo il luogo affascinante e misterioso. In prossimità delle prime colline, lasciamo la strada asfaltata e ci avventuriamo all’interno di una piantagione di alberi del té enorme, percorrendone i filari ed osservando donne che ne raccolgono le foglie, riempendo poco a poco le gerle in juta che portano sulle spalle.
Una volta ripreso il sentiero sterrato, incrociamo vari gruppi di donne che scendono verso Namhsan trasportando due enormi sacche piene di té a testa, sorreggendole sulla schiena con l’aiuto di una corda legata alla fronte; copricapi conici le riparano dal sole che a tratti spunta da dietro un cielo coperto da bianche e soffici nubi. C’è inoltre parecchia gente che scende in paese a piedi o in motorino per acquistare benzina e cibarie. Attraversiamo poi una serie di villaggi dove sorridenti personaggi ci salutano e si stupiscono quando sfoggiamo un po’ del linguaggio Palaung appreso questa mattina, che miracolosamente si è fissato nella memoria nonostante l’ora. Seguiamo una vecchia mulattiera che sale gradualmente, circondata da natura rigogliosa e silenziosa. Il sole si è fatto spazio in cielo; siamo soli nel sentiero per almeno un altra ora fino quando finalmente, dopo oltre 3 ore di cammino durante le quali la temperatura continua ad abbassarsi, arriviamo al monastero di Ton Yu Priè, a piu di 2000mt di altitudine.
Lì, nuvole bianche e candide accarezzano le colline, viaggiando veloci spinte da un fresco vento. Un gruppo di cavalli giovani e dall’aspetto curato pascolano in un prato sovrastato da una collina sulla cui cima spicca l’enorme statua di un Buddha seduto a gambe incrociate su di un letto di fiori di loto; veste una tunica marrone e scruta l’orizzonte, rivolto verso nord. Sparsi tra le colline vicine, una serie di stupa bianchi di diverse grandezze; la vallata si presenta a noi vasta, sovrastata da alte montagne che le fanno da sottofondo. Ci avviciniamo allo stupa principale e scorgiamo una monaca dalla testa rasata in tunica rosa, intenta a mettere dell’aglio ad essicare su di una stuoia rossa al suolo; appena ci vede sfoggia un sorriso sincero e fa cenno di avvicinarci. Non parla inglese ma coi gesti ci prega di seguirla; ci conduce ad un edificio che funge da cucina/sala del monastero. Al suo interno, ci sorprende la vista di due monaci in tunica bordeaux ed infradito, uno anziano e l’altro giovane, i quali ci accolgono come se ci stessero aspettando. Ci sediamo attorno ad un fuoco acceso in una buca del suolo, attorno al quale riposano e si scaldano due gatti infreddoliti, e sul quale si scalda una brocca piena di té nero. La stanza è annerita dalla fuliggine; tutto è scuro già che non ci sono finestre, l’unica luce entra da piccoli lucernari in varie parti del tetto a travi e lamiera ondulata.
Stiamo in silenzio; i monaci restano seduti e cercano di intavolare una conversazione col poco inglese che il più giovane riesce a parlare, poi si alzano ed escono, salutandoci. Ci gustiamo la quiete mentre la monaca ci prepara da mangiare nella spartana cucina: del riso ed un curry di pesce salato e speziato all’estremo, nonché delle verdure cotte a noi sconosciute. La sorridente monaca ci fa compagnia finché non abbiamo finito, raccoglie i piatti, li porta in cucina e si dilegua pure lei, lasciandoci soli. È un momento magico; ci sdraiamo sulle panche di legno accanto al fuoco, bevendo té ed osservando i gatti che si litigano lo spazio più vicino al fuoco. Gli vanno cosi vicino che mi sorprende che non si scottino o che il pelo non gli prenda fuoco. Dopo un qualche tuono inizia a piovere: dapprima piano, a goccioline che appena si sentono sulla lamiera del tetto, poi violentemente, con goccioloni che bombardano l’arrugginita lamiera, acqua che si fa spazio tra le giunture della lamiera e penetra dentro alcune zone della stanza, scaglie di fuliggine che si staccano dal soffitto e cadono sporcando il suolo e depositandosi sui nostri maglioni e sulle nostre teste. Ci copriamo con due coperte e ci addormentiamo al suono tamburellante della pioggia…
Ci svegliamo che fa un freddo boia, l’aria è gelida e ci rendiamo conto di non essere attrezzati per queste temperature. Usciamo e ci portiamo verso un edificio a vetrate dal quale si scorge il Buddha in pietra, ma non più la vallata né i cavalli, ora coperti da nuvoloni bassi e fitti che entrano dalle finestre rotte e dagli infissi malandati. Attendiamo pazientemente che smetta di piovere forte e che l’aria si rischiari, cerchiamo i monaci e la monaca per salutarli e ringraziarli ma sono spariti, così ci incamminiamo. La pioggia va e viene ma lentamente ed inesorabilmente ci bagna tutti i vestiti. Nel fondo della vallata, scorgiamo un piccolo fiume che scorre copioso, e le risaie di color giallo circostanti che contrastano con il verde intenso dell’intorno e con le acque marroni del fiume. Ad un certo punto comincia a piovere così forte che benediciamo la vista di un conglomerato di case spartane in legno, dove ci vediamo costretti a rifugiarci dentro la casa di una famiglia locale molto povera ma incredibilmente accogliente. Il nucleo famigliare è composto da mamma, papà e 3 figlioletti maschi; tutti vestiti di panni improbabili e sporchi, sfoggiano facce sorridenti fuori misura che ci danno un immediato ed indescrivibile calore. Nella casa ci sono almeno una dozzina di persone, tutte molto sorprese della nostra presenza, ma nondimeno incuriosite e felici di avere un diversivo.
Ravvivano la stufa con un po’ di legna e poi ci invitano a sedervi attorno al fuoco. Che bello riscaldarsi ed asciugare i vestiti bagnati fradici. Tra il ridere generale, socializziamo con gli amici della famiglia, cercando di comunicare col linguaggio universale. Ci offrono té e uno snack di ceci e spinaci, oltre a palline di zucchero nero. Noi gli regaliamo quasi tutto quello che abbiamo negli zaini: frutta e biscotti. È il capofamiglia che monitorizza la pioggia, all’esterno; abbiamo proposto di dormire lì se dovesse continuare a piovere forte, dopotutto siamo ad almeno un altra oretta e mezza di cammino da Namhsan e non possiamo marciare sotto l’acqua. Finalmente smette l’acquazzone ed inizia una pioggerellina debole che ci da la forza di ripartire. Ci congediamo dalla gentilissima famiglia quasi commossi dalla loro ospitalità.
Ma non è stata un’idea brillante. Il sentiero è fangoso a dismisura, sabbia e terra nascondono insediosi pietroni che mettono alla dura prova le mie scarpe, che stanno tirando le ultime. La pioggia continua inclemente. Raggiungiamo la periferia di Namhsan che il sole è oramai calato, e raccogliamo la forza fisica e mentale per affrontare gli ultimi chilometri. Sono stanco e spossato, con le ossa che doulono, ma dentro sto maturando una grande soddisfazione per il successo dell’escursione. In paese, i bambini addobbano le entrate delle dimore con file di candele accese e scoppiano rumorosi petardi. Ci concediamo una cena di zuppa di noodles e tofu, seguita da una doccia veloce e da un sigarettino cheerot, prima di abbandonarci, in branda, tra le braccia di Morfeo.