Parte 2 – Trek sull’elefante –
Alle sei mi sveglia il suono delle grosse foglie che si staccano dagli alberi e che cadono sul tetto del bungalow insieme a spesse gocce di rugiada, così spesse che sembra che piova. Fuori c’è ancora buio e la spessa nebbia peggiora ulteriormente le cose. Il gerente dell’hotel, tutto infreddolito, mi informa che il ragazzo incaricato di comprarci i biglietti sta ancora facendo la coda all’ufficio del Parco Nazionale di Royal Chitwan. Mi consiglia di incamminarmi alla volta del punto d’imbarco.
Alle sette in punto sto già salendo sulla soprelevata piattaforma che mi porta dritto in schiena dell’elefante, alla quale è legata questa base di legno a quattro posti con morbidi cuscini e con tanto di ringhiere di bambù per aggrapparsi. Il cielo si sta schiarendo, il grosso elefante che ci porta in groppa sembra vecchiotto, ma a pensarci bene non è facile dare un’età ad un elefante; a questo sono state rimosse completamente le zanne. L’autista siede sul suo enorme collo e ne sprona i movimenti prima con suoni gutturali, ed in seguito con colpi di una pesante barra di ferro assestati sulla nuca, la quale emette un suono concavo, come se dovesse crepare da un momento all’altro. Ma la bestia non ci fa caso, segue i suoi lenti passi come se niente fosse.
Non si sta poi così scomodi su questo giaciglio; seguiamo una colonna di altri tre pachidermi con turisti a bordo, e per una buona mezz’ora attraversiamo sentieri tra baracche d’indigeni intenti nei loro mestieri: accendere il fuoco, lavare i bambini, mondare il riso. I buoi si cibano di erba sotto i loro ripari palafittati dal tetto di paglia, sui quali sono stese ad asciugare enormi lenzuola colorate. Le donne pelano pannocchie e le caprette al pascolo sono appena distinguibili nella bruma lontana. Ogni capanna ha il suo ordinato orticello dove la verdura cresce rigogliosa ed abbondante. Da alcune capanne escono i densi fumi dei camini ardenti che si mischiano alla nebbia.
Finalmente entriamo nel parco nazionale. Passiamo una buona oretta tra praterie dove spadroneggiano coloratissimi pavoni; l’erba arriva ad essere alta fino a cinque metri e le piante pullulano di rari uccelli che fanno un baccano infernale. Avvistiamo un paio di antilopi, ma non appena ci sentono scappano tra la fitta vegetazione. Gli elefanti guadano molto lentamente un paio di fiumi ed una palude; è lì che inizio a preoccuparmi del fatto che se l’elefante dovesse cadere di lato, intrappolati come siamo nella grande gabbia di legno che funge da sella non avremmo molto scampo sotto il suo peso di tonnellate.
Nel frattempo il cielo si è schiarito ma di rinoceronti nemmeno l’ombra; il mahout sa che se vuole trovarli dobbiamo dividerci dal gruppo degli altri elefanti. Ci allontaniamo gradualmente, al di fuori del sentiero, tra le piante e l’erba talmente alta che ci ha bagnato scarpe e pantaloni; il pachiderma deve ora aiutarsi con la proboscide per aprirsi il cammino. Ogni tanto si concede attimi di relax nei quali stacca enormi rami dagli alberi e se li porta alla bocca, masticandoli voracemente e al tempo stesso scaricando dall’orifizio anale puzzolenti ciambelloni di escremento della grandezza di una tartaruga gigante.
La pazienza e l’estremo silenzio vengono premiati dopo poco, quando avvistiamo una coppia di bestioni dall’apparenza preistorica. Stanno mangiando erba e il mahout ne approfitta per avvicinarsi con cautela; uno dei due è mastodontico, alto almeno un metro e mezzo alle spalle. Ci devono aver per forza notato, ma entrambi non sembrano particolarmente seccati dalla nostra presenza. Potrebbe essere l’unica volta che vedo un rinoceronte dal vivo nel suo ambiente naturale, e sono emozionato. Siamo ora a solo qualche metro di distanza, è un’emozione indescrivibile e mi sto godendo tanto l’attimo che mi dispiace quasi scattare foto, fare intervenire la tecnologia in questo momento di simbiosi con la natura.
Li osserviamo con attenzione millimetrica, selvaggi e giganteschi, con i loro corni minacciosi e la solida corazza che sembra essere d’amianto. E poi succede: l’autista fa un cenno all’elefante il quale si butta su di loro, facendoli fuggire, e poi, spronato, vi si getta all’inseguimento, abbattendo un paio di piante nel processo. Il tutto è emozionante ma i rinoceronti sono più veloci di quel che pensavamo, e la caccia è breve.
Nella via del ritorno il sole è già caldo; ho i pantaloni sporchi, le scarpe fradice, i piedi informicoliti e le gambe indolenzite dal tanto dondolare, ma sono soddisfatto dell’esperienza. Tre ore e mezzo a bordo di un elefante nella Riserva Naturale di Royal Chitwan non è cosa da tutti i giorni…
PARTE 1 : https://asianitinerary.com/it/royal-chitwan-national-park/
PARTE 3: https://asianitinerary.com/it/royal-chitwan-national-park-3/
CHITWAN su INTERNET: https://en.wikipedia.org/wiki/Chitwan_District