GIORNO 4
La mia temerarietà non ha limiti, e perciò noleggio una mountain bike per avventurarmi nel traffico di Kathmandu, che non è poi così terribile come credevo. Mi dirigo verso est e, dopo aver affrontato qualche faticoso saliscendi e la noncuranza di autisti di camion irrispettosi delle auto, figuriamoci delle biciclette, passo dal traffico pesante alla relativa tranquillità della periferia e sono testimone cambio radicale dall’urbe al Nepal rurale. Anche il mio sedere vede un cambio radicale dopo un’oretta seduto su di una durissima sella.
PASHUPATINATH
Dopo 45 minuti di dura pedalata arrivo a Pashupatinath, il recinto sacro indù più importante del paese, nonché casa di uno dei templi di Shiva più famosi di tutto il subcontinente indiano. Pashupati, o signore delle bestie, ha un’importanza primordiale per i nepalesi i quali visitano il sito prima di un viaggio o di una missione importante per ricevere la benedizione di questa divinità. Questo luogo sacro è famoso per le cremazioni che vi si celebrano sulle rive del fiume Bagmati, un fiume sacro per Pashupatinath come il Gange lo è per Varanasi. Dalle 6 di mattina alle 7 di sera vengono costantemente accese pire funerarie, sotto gli occhi di centinaia di nepalesi e di qualche turista assetato di reportage fotografici. Sui numerosi ghats – le gradinate che conducono al fiume – gli altari usati per le cerimonie funerarie affiancano il flusso d’acqua. Alcuni di questi altari vengono usati dalle famiglie meno abbienti, altri sono riservati per ricchi e nobili; ogni casta ha il suo settore di cremazione. Alcune scimmie insolenti scorrazzano nella zona adiacente.
Mi metto a sedere su di una lunga scalinata nella sponda opposta, dove decine di curiosi turisti sono già appostati per assistere ad una cerimonia in preparazione. L’attesa è lunga e mi permette di bighellonare tra bellissimi templi dalle forme ed iscrizioni enigmatiche, nonché immagini tantriche e scene erotiche. Ad un certo punto quelli che sembrano padre e figlio portano la salma di un vecchio signore giù per gli scalini e ne immergono i piedi in acqua per santificare il corpo. La scena ha del grottesco, il morto ha un’espressione assorta e la bocca aperta, la sua pelle ha oramai assunto un colore pallido.
Su una delle piattaforme stanno preparando legna intrecciata a dovere per una pira, e quando erroneamente penso che sia per il corpo dell’anziano, ecco comparire un gruppo di persone che trasporta una giovane donna senza vita e la stende sulla legna. Quello che è probabilmente il marito cosparge il corpo, coperto nella quasi totalità da un velo bianco, di spezie coloratissime mentre un paio di donne lo riempiono di fiori. Il bel viso della giovane è scoperto, e l’uomo, dopo aver riempito la pira di rametti piccoli per facilitarne l’accensione, ne appicca il fuoco infilando uno dei rametti accesi nella bocca di lei e recitando le ultime preghiere. Tutto si svolge nella più completa tranquillità, i famigliari non gridano né piangono, si limitano a meditare ed osservare, e questo fa sembrare la morte la cosa più naturale del mondo. I turisti, dall’altra sponda, scattano foto ma con discrezione, con obbiettivi zoom, per non offendere le persone in lutto.
Il fumo ha oramai coperto del tutto la salma e l’odore della carne che brucia impregna l’atmosfera. C’è un silenzio piatto, percettibile. Decido di andare a visitare gli altri templi situati in un raggio di 500 metri dai ghats. In uno di questi faccio la conoscenza di uno dei tanti sadhu, i sacri asceti indù, con le loro tuniche arancione e i visi colorati dalle molteplici pujas. Uno di loro, uno yogi – maestro yoga – che si fa chiamare Baba Kalabar, mi diletta con qualche posizione di yoga che lo fa apparire come un vero contorsionista da circo. Ha la faccia da topolino, un sorriso vero e beato, veste di giallo e si porta appresso tutti i suoi averi, che consistono di un piccolo zainetto sgualcito e semivuoto ed una barra di ferro con due anelli all’estremità che lo aiuta nelle sue impossibili posizioni. Il viso è quasi completamente dipinto di giallo, così come i capelli, lunghi ed impiastricciati di una strana sostanza, mentre i palmi delle mani sono colorati di rosso. Il corpo è coperto da una patina indelebile di sporcizia ed ha al collo un paio di spesse collane di corallo per le preghiere indù. Ne approfitto per immortalarlo varie volte, assieme al suo compagno, un sadhu vestito di rosso con in testa un turbante ocra, anche lui sorridente e disponibile. Mi congedo promettendogli di inviargli le foto fatte e ne trascrivo l’indirizzo: Baba Kalabar, Pashupatinath, Kathmandu. Mi chiedo se il postino veramente recapita la posta a questi dedicati eremiti.
Al ritorno sulle rive del fiume, il corpo della donna è oramai ridotto ad un cumulo di cenere e buona parte dei curiosi se n’è andata, mentre il fumo continua ad offuscare l’aria ed i vari pellegrini continuano le loro attività di sempre, incuranti: le offerte, il bagno purificatore nelle acque sacre, gli incensi, eccetera. Le ceneri vengono in seguito affidate al fiume Bagmati e ne seguiranno il suo corso fino a sfociare nel sacro Gange.
BODHNATH
Riprendo la bici, faccio un giretto nel mercatino del paese e poi parto allontanandomi ancor di più dalla città, destinazione Bodhnath, casa del più grande stupa di tutto il Nepal e uno dei più grandi del mondo.
Finalmente, dopo una buona oretta di pedalate tra sentieri pieni di pietre, arrivo nella strada principale di Bodhnath. Varie viuzze portano all’entrata della piazza, al cui centro vi è il famoso stupa, rassomigliante a quello di Swayambhunath ma molto più amplio in circonferenza. Lascio la bici legata ad un porticciolo, pago il biglietto d’entrata e mi tuffo in una moltitudine di negozietti che circondano il maestoso santuario adornato da centinaia di bandiere di preghiera.
Questo è il centro religioso della popolazione tibetana del paese, ed è qui che vive buona parte della comunità tibetana. La presenza di monaci e devoti è alta, arrivano da tutta l’Asia. Diverse stradine sterrate portano a vari gompas, i monasteri, alcuni lontani un paio di chilometri, altri a poche centinaia di metri. Ne scelgo uno abbastanza vicino e pressoché deserto, nessun turista nei dintorni, e ne approfitto per togliermi le scarpe, come d’usanza, ed entrare. Mi siedo in silenzio tra i monaci in meditazione, godendomi così la mistica atmosfera tra persone che irradiano una pace ed una tranquillità coinvolgente, che si respira nell’aria e che ti riempie lo spirito.
Potrei starmene qui per ore, ad ascoltare questi canti che seguono il ritmo dato dall’anziano lama seduto su di un banchetto soprelevato. Dietro di lui, enormi statue dorate raffiguranti il Buddha riempiono la parete di fondo, e sotto di ognuna vi sono varie candele accese nonché una grande foto del Dalai Lama. Le altre pareti ed il soffitto sono corredate da opere di pittura su cotone dai contorni marcati che richiamano scene di vita dell’illuminato già viste sui famosi thanka, i dipinti su tela raffiguranti soggetti legati al buddismo e incorniciati in stoffa. Spesso i murali mostrano scene mitologiche, figure di antichi lama, e perfino mandalas, i diagrammi che aiutano l’arte della meditazione e che rappresentano le varie forze dell’universo. Un’altro dei soggetti classici dei murali è la ‘wheel of life’, la ruota della vita, la quale rappresenta l’infinita conoscenza e saggezza del Buddha e la strada che l’essere umano deve intraprendere per poter uscire dal sàmsara, l’inferno terrenale, ed entrare nel nirvana, il paradiso. Dal soffitto e sulle colonne pendono coloratissimi stendardi di seta a frappe con iscrizioni in linguaggio tibetano e cinese. Di tanto in tanto un monaco esce dal monastero per tornare con ciotole piene di cibo, in maggioranza semi, legumi e riso, che distribuisce tra i presenti. Trovo il tutto commovente e mi sento alquanto fortunato di potere dividere con loro, anche solo per poche decine di minuti, una briciola delle loro disciplinate vite dedite all’auto sostentamento, alla preghiera ed all’adorazione del Buddha.
All’esterno, il sole sta calando inesorabilmente; questo è un orario formidabile per Bodhnath. Le orde di turisti se ne tornano in città ed il posto riacquista il suo carattere buddista di sempre: gli abitanti si ritrovano a chiacchierare mentre compiono il rituale della passeggiata attorno allo stupa, in senso orario, come comanda la tradizione. I negozi che espongono prodotti dell’artigianato tibetano stanno chiudendo i battenti.
Il rientro in città è meno duro di quello che pensavo – le gambe oramai sono forti – ma è caratterizzato da molto più traffico che all’andata. La serata la passo in hotel, per riposarmi dalla faticaccia di oggi.
Per saperne di piu clicca http://en.wikipedia.org/wiki/Pashupatinath_Temple o http://en.wikipedia.org/wiki/Boudhanath (solo in inglese)